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Provando a parlare in nome di Erri De Luca. Chiara Marsilli.

«“In nome del padre” inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita.»

E in nome di Erri si inaugura questa riflessione.

Erri De Luca è uno scrittore di sangue e sole, scrive ciò che pensa e pensa ciò che vive. Per questo le sue parole respirano l’umano. Non sono buttate a caso come troppo spesso succede, non sono parole gettate a mazzi confusi o per amore di una qualche estetica sonora, non si tratta di grossolane accozzaglie di espressioni ad effetto: trasmettono qualcosa perché sono qualcosa, hanno una profondità che è tanto intima quanto rigorosa e coerente. La colonna vertebrale di queste sue parole messe attentamente in fila è l’indagine filologica, una recherche non emotiva, ma al contrario mossa dalla consapevolezza asciutta e calda di chi sa che solo la verità ha la forza di emozionare. Un bisturi per scavare nelle parole e sotto di esse, per ricordarsi l’irricordabile e usarlo come nucleo pulsante di un libro che è già stato scritto, molto tempo fa.

Nasce libro, vive spettacolo: la consapevolezza di essere nati da corpo di donna, tutti, indistintamente, ma soprattutto gli uomini.

La potremmo definire una storia religiosa già nota, sentita ripetere più volte al catechismo e in chiesa, o conosciuta per patrimonio culturale condiviso, un mito di fede distante e astratto che si concretizza solo nelle folcloristiche statuine del presepe, quella di Maria e Giuseppe. Ma se si riporta tutto all’origine, se i personaggi si chiamano Miriam e Joseph, se l’angelo è il vento caldo e misterioso del marzo di Israele, se una ragazza madre partorisce da sola: la fabula è la stessa, la lectio è un’altra. Si tratta, letteralmente, di una ri-lettura narrata in scena, di un modo nuovo di osservare le cose sia per quanto riguarda la storia sia per la scelta di modificare il rapporto che intercorre tra testo e palcoscenico e tra palcoscenico a spettatore.

Ogni cosa cambia a patto di essere disposti a cambiare prospettiva, ed è proprio quello che fa Simone Gandolfo, seguito e sostenuto proprio da Erri De Luca, nel mettere in scena In nome della madre. Non una versione definitiva, non un’opera conclusa e ab-soluta, calata dall’alto dell’autorità registica su di un pubblico “paziente”, ma un tentativo di mettere in moto la coscienza del singolo spettatore, dimostrando che spesso la storia non è come ce la raccontano. Anche se la struttura del progetto è certamente figlia del metateatro, sarebbe riduttivo leggere questo spettacolo solo come una preziosa e inconsueta opportunità di gettare un’occhiata “dietro le quinte” alla scoperta della genesi di un’opera teatrale, perché nello sviluppo del limpido racconto il contenuto prende nettamente il sopravvento sulla forma. Il primo incontro con lo scrittore e la lettura della drammaturgia scolorano rapidamente nella prova in palcoscenico, fino alla solitudine di Sara Cianfriglia, ormai compiutamente Miriam.

La ricerca operata da Erri De Luca è semplice, e proprio per questo va detta, in scena come qui: per non cadere nella banalità del credere che si tratti di un ennesimo lavoro “ispirato a”. Lasciando da parte le interpretazioni canoniche incrostate di secoli di tradizione, lo sguardo si riscopre vergine e si muove in direzione della versione primigenia della storia, colmando con l’immaginazione solo le pagine lasciate bianche, senza contraddire in nulla la visione restituita dagli Apostoli. Ecco la scaturigine plurima di questa variante modernamente apocrifa ma strettamente legata ai quattro Vangeli canonici: l’originale ebraico, lo studio storico delle tradizioni, lo sguardo attento rivolto alla cartina geografica di una zona oggi tristemente nota ma ignorata.

E dunque una così stretta attinenza alle fonti storiche può mettere in bocca a Miriam una preghiera rovesciata, un violento implorare Dio che il figlio appena nato viva nella più assoluta anonimità, una difesa della sua normalità di essere umano prima di essere chiamato alla missione divina; e una carica di umanità palpitante prende corpo in Joseph, giovane uomo innamorato. Ma tutto questo non è bestemmia, non c’è traccia di blasfemia. La rivoluzione è dire la verità e trovare la religione nell’umano più corporeo, nel legame di sangue e amore che è quanto di più divino esista.

Cosa sapete della Street Art? Enrica Passalacqua

Sono sicura che la maggior parte di voi sappia più o meno di cosa si parla quando si usano i termini “street art”, ma la loro definizione è tutt’altro che semplice. La difficoltà deriva dal fatto che ancora oggi la Street Art non rappresenta un movimento definito, ma è considerata come un semplice fenomeno. Fenomeno di massa? No, almeno non in Italia. Forse solo ultimamente il nostro Paese si è aperto un po’ di più a questo tipo di espressione artistica. Pensate che la prima mostra di arte contemporanea sulla Street Art in Italia (Street Art, Sweet Art, Milano) risale al 2007.

Vediamo di chiarirci un attimo le idee su cos’è e cosa NON è la nostra “arte di strada”.

Purtroppo non è superfluo dire che i famosi “imbrattatori alla Moccia” NON praticano street art! Quindi i benpensanti, perbenisti, che disprezzano le scritte amorose sui monumenti del Bel Paese si tranquillizzino, noi non siamo qui per difendere le frasi di adolescenti con la mente annebbiata dagli ormoni. I professionisti di questo mestiere, infatti, non imbratterebbero mai un monumento a caso, solo perché era il primo muro libero a portata di mano. La ragione? Non è perché sono estremamente educati, ma perché il primo tratto distintivo della Street Art è il CONTESTO.Questa forma d’arte, infatti, si basa su tre pe culiarità che ci permetto-no, o almeno ci aiutano a trovare un denominatore comune a tutte le opere. Se per un’opera di Street Art è fondamentale un contesto riconoscibile, lo è anche il CONCETTO, cioè il messaggio che l’opera porta. Infine la terza caratteristica è la più importante: la PARTECIPAZIONE, senza questa la Street Art non ha senso di esistere. Opere come queste vanno vissute e hanno una vita propria (con molti problemi), nascono e muoiono. Sì, muoiono. E la loro morte non è un problema, neanche per l’autore. L’artista nel momento subito successivo alla creazione non se ne occupa più perché una volta che il messaggio è arrivato, il mezzo ha concluso la sua funzione.

Ora non farò altro che applicare questi tre tratti a un artista che ha segnato gli ultimi anni, creando non pochi problemi al “Sistema Arte”. Sto parlando del noto, anzi ignoto, Banksy. Non vi starò ad esporre tutta la sua biografia, vi basti sapere che nessuno sa come sia il suo volto e che ha invaso le più grandi capitali del mondo di sue creazioni, partendo dalla Gran Bretagna. Penso, e spero, che tutti abbiano presente il combattente incappucciato che scaglia un mazzo di fiori (Banksy, Flower Thrower) e le altre bellissime immagini dipinte sul muro di Gaza col progetto Santa’s Ghetto. Ecco, queste immagini hanno un Contenuto, un messaggio forte di libertà, un Contesto ben preciso, il luogo simbolo della guerra israelo-palestinese, e la Partecipazione di tutti gli occhi del Mondo.
Oltre ad aver portato la Street Art al suo massimo livello di fama, Bansky, come dicevo prima, ha creatro non pochi problemi. Si è divertito ad inchiodare deliberatamente sue opere sui muri della National Gallery di Londra, ha lasciato installazioni bizzarre per le strade delle città. Ormai però il fenomeno ha superato anche il volere stesso dell’artista. Pensate che da quando è diventato famoso vengono staccati muri interi dalle case per essere venduti e addirittura vengono battuti all’asta palazzi interi perché hanno ricevuto una visita notturna dell’artista. Per concludere vorrei chiarire un piccolo particolare a cui non avevo ancora accennato: la Street Art è illegale. Se non del tutto, almeno la maggior parte. L’importanza del Contesto/Messaggio porta questi artisti (Banksy tra i primi) a spingersi in luoghi molto visibili e trafficati, ma, inevitabilmente, di proprietà altrui o pubblica. È anche per questo che è impossibile definire questa situazione in maniera chiara ed è impossibile essere soddisfatti completamente se ci ritroviamo l’arte di strada rinchiusa nell’ennesima galleria di arte contemporanea. Per forza muterà di significato.

Per questa ragione vi do un consiglio. Se volete vedere, seguire e scoprire queste opere girate per le metropoli e le città col naso all’insù e dietro ogni angolo potreste scoprire cose inaspettate. In fondo la ragione di essere di quest’arte è proprio farci riscoprire lo spazio urbano, riuscendo a rendere diverso e particolare quello che fino a ieri era stato identico a se stesso, grigio e senza un suo Io.