MOSTRAmi Maura Jasoni. Incontri a regola d’arte. Anita Bianco

Il tempo per le novità è tempo di approfondimento e i punti di accesso al molteplice, a volte, sono meno sfuggenti di quanto si possa immaginare. Bologna offre spazi di confronto, di immersione nel raro, di esplorazione godibile attraverso sensi ben predisposti. Questa volta basterà essere presenti alla Libreria delle Moline (in data 11 Aprile h. 18.00) per assistere ad un doppio evento culturale che vede protagoniste la pittura e la letteratura. Due mondi si affiancano, con sorpresa si toccano e propongono punti di vista, linguaggi espressivi indipendenti ma tra loro dialoganti. La presentazione di un libro, Lola Suárez di Simona Bertocchi per la Giovane Holden Edizioni, e l’esposizione di incisioni di Maura Jasoni, pittrice spezzina dalle riconosciute competenze artistiche. La protagonista del libro è una pittrice che vive la passione per l’arte nell’Argentina degli anni ‘70, segnata dal dramma dei desaparecidos in seguito al golpe cileno del ‘73. I passi della danza, invece, sono il collante tematico delle incisioni della Jasoni che sceglie la strada della collaborazione artistica per permettere alle proprie creazioni di «proporre un altro linguaggio e la sua autonomia rispetto al testo». Ci troveremo, quindi, di fronte a immagini che non hanno lo scopo di approfondire o correggere la forza espressiva del testo del romanzo ma semplicemente di affiancare al romanzo le peculiarità comunicative dell’incisione. La pittrice ci spiega in anteprima come sboccia questo progetto di “vicinanza” artistica. «Il lavoro di un pittore nella collaborazione all’opera di un altro artista si differenzia di poco dall’iniziativa autonoma, perchè la collaborazione nasce dall’intesa, dall’affinità nel modo di condividere la visione delle cose. La scelta da parte mia di eseguire delle incisioni da affiancare al romanzo Lola Suárez della Bertocchi, nasce dalla passione per questo tipo di grafica. Qui si tratta di acqueforti e acquetinte stampate a mano su carta cotone e garza». Ed ecco svelata l’idea che lega l’elemento verbale a quello figurativo: «La mostra ed il romanzo propongono una riflessione sulla condizione femminile, sul ruolo della donna calata in uno stato di continuo contrasto, con tensioni, costrizioni e forza. Nelle immagini, a sottolineare questi stati d’animo, c’è la scelta del non colore che evidenzia il segno: quando il colore compare, come spiritualità, si contrappone alla forza e alla fisicità del nero». La scelta di esporre arte in una libreria. La casa del libro, per l’occasione, sarà anche spazio di esposizione, diventerà punto di osservazione per lettori e non. Insolito. Maura Jasoni dice: «L’esporre queste opere in una libreria è per me il contesto ideale per esaltare le caratteristiche tecniche della grafica, in uno spazio che ben si addice alla loro fruizione: dimensioni piuttosto piccole che si guardano da vicino, prevalenza di bianco e nero, di carta e di stoffe leggere. Anche se nella sala della libreria non saranno presentate soltanto acqueforti, le altre opere rispondono alle stesse caratteristiche». Siamo chiamati ad avvicinarci, a questa mostra e al romanzo. Entrare nella Libreria delle Moline sarà sintomatico del nostro desiderio di cogliere con vista e udito quello che l’arte è in grado di donare nei giorni ordinari e di riflettere sul mondo femminile attraverso il lavoro solidale e sensibile di due donne. Prima studiate o fate una passeggiata, lavorate, se piove aprite l’ombrello, fumate una sigaretta all’ingresso del 32, bevete un negroni (piace molto a Maura Jasoni) e poi andate in avanscoperta, con entusiasmo, con me.

Giovedì 11 aprile, h. 18,00
Libreria delle Moline
presentazione di Lola Suárez
di Simona Bertocchi ed esposizione delle opere di Maura Jasoni

Disciplinamento sociale: fenomeno moderno o contemporaneo? Filippo Martinelli.

Il Disciplinamento Sociale è un processo portato avanti dalle chiese e dagli stati a partire dalla prima età moderna, di cui risentiamo tuttora anche in età contemporanea. È quindi un fenomeno che vede una sua fase embrionale nel 1500 e che si concretizza in modo permanente nel ‘700 e ‘800 fino ai giorni nostri. A partire dalla prima età moderna avviene un’enorme processo di riconfigurazione dei comportamenti sociali dei diversi ceti sociali. Questo processo, ai suoi inizi durante il secondo ‘500, si staglia su uno sfondo di profondi conflitti sociali che lacerano il tessuto dell’età moderna ai suoi primordi: nel 1517 avviene la rottura permanente dell’unità religiosa dell’Europa cristiana, ossia la Rivoluzione Protestante. Il mondo agricolo che si avvia, non senza lotte ed impoverimenti, ad un’economia proto-capitalista con l’avvento della borghesia. Le guerre fra gli Stati moderni (su tutte quella dei Trenta Anni ad inizio 1600), che causano un aumento di peso fiscale sulla popolazione degli stati coinvolti pari al 120% per sostenere le spese belliche. Crisi religiose, guerre fra stati, industrializzazione fanno aumentare in modo esponenziale durante l’era moderna la quantità di indigenti, i quali attuano rivolte contro lo Stato stesso, che vengono sistematicamente sedate con la violenza tramite l’utilizzo dell’esercito e della sua mobilitazione. In altre parole è lo Stato Europeo stesso che, oberato dalle rivolte sociali del popolo, non soccombe, reprimendo nel sangue ogni tipo di comportamento non conforme alle norme stabilite dalla società. Parallelamente alle misure prese dagli Stati, vi è la reazione repressiva della Chiesa Cattolica minacciata (come mai lo era stata dai tempi dell’imperatore Costantino) dallo scisma Protestante, che impone stili di vita specifici al popolo: l’obbligo della Confessione almeno una volta l’anno durante il periodo della Pasqua (sacramento tramite cui si controllavano in modo capillare tutti i movimenti della società europea aristocratica e non); l’obbligo di non leggere libri considerati proibiti, pena la condanna a morte per eresia; l’obbligo di dichiarazione pubblica di matrimonio. Paradossalmente lo Stato Moderno si dichiara tale, obbligando una pace (in molti casi forzata con l’uso della violenza) al proprio interno, “sfogando” la propria brama imperialistica all’esterno con un’infinita guerra fra stati stessi. Il concetto è quindi storico, filosofico e politico allo stesso tempo: vi è sempre (a prescindere dal regime politico di turno) una casta dominante al potere che non vuole rinunciare fino all’ultimo ai propri privilegi, reprimendo con la forza i disordini interni, espandendosi poi all’esterno. In tutto questo contesto vi è il comune denominatore della violenza che segna i passaggi della storia dell’uomo sia in positivo (se pensiamo ad un evento importantissimo come la Rivoluzione Francese) sia in negativo (se pensiamo fino a dove è arrivato il culmine di questo disciplinamento sociale: ossia al Fascismo ed al Nazismo di inizio ‘900). Questi tristi fenomeni si riscontrano a livello bellico tutt’oggi nei paesi meno sviluppati (come ad esempio quelli Africani), oppure si riscontra un dominio economico degli stati politicamente egemoni a livello mondiale (USA, Russia, Cina per citare i più noti) sugli altri stati industrializzati. Lo Stato utilizza la ragione in modo rigido e violento come metodo di salvaguardia della propria sopravvivenza: tutto ciò che non rientra nei suoi parametri viene tendenzialmente scartato. Per citare un esempio che ci riguarda direttamente, lo Stato Italiano si è trovato in piena recessione economica e come soluzione si è varata una politica di tagli alle scuole, strutture pubbliche, lavoro, assistenza per gli anziani etc, per garantire la sopravvivenza dei privilegi del ceto politico dominante, che, a prescindere dal suo schieramento, non ha considerato la crisi economica globale che impoverisce il popolo ma anzi ha assicurato, una volta di più, la propria leadership. Si parla di crisi e si danno rimedi attraverso numeri (debito pubblico, tasse in aumento, spread, etc.) che vanno sempre e solo a toccare la massa e non i poteri economici forti, determinati fino all’ultimo a “navigare” sulla crisi che grava sui cittadini per i loro privilegi e posti di potere. Basteranno gli strumenti democratici ottenuti giustamente con lotte sociali, per attuare un miglioramento e così risalire il baratro economico e sociale in cui ci troviamo, oppure si dovrà ricorrere ancora alla violenza di un popolo stremato dalla propria classe dirigente?

È tutta un’illusione. Virginia Malato.

Pensò di stare bene, di avere finalmento superato il trauma; quando ormai da tempo aveva trovato un nuovo equilibrio con se stessa e ricominciava a riempirsi di aria fesca, frizzante allora si era lanciata di nuovo nella vita a braccia aperte, senza troppo pensare: era stato un tuffo nel mare più scuro, di sera, veloce, che non lascia spazio alle incertezze. Assorbita dalla quotidianità, tutto le era sembrato naturale, rincominciare e concedersi nuovamente alla felicità, alla più pura gioia di sfiorare altre mani, assaporare un altro profumo, nuovi discorsi e nuove emozioni…Tutto era così diverso e lei intimamente sperava davvero che lo fosse, che fosse migliore. Ma fu proprio in quel momento, nel momento in cui si trovò per la prima volta davanti a questa verità, a questa diversità che non potè fare a meno di realizzare che il passato, nonostante tutto, non sarebbe più tornato e ne sentì la mancanza. Quella confortante abitudine non c’era più e lei non aveva di certo la forza per crearne una nuova, diversa, perchè sapeva che si sarebbe infranta, come un fragile bicchiere di cristallo tra le mani dell’uomo più maldestro.
Cercò di sfuggire, di ribellarsi a queste catene che la legavano a ciò che era stato e che non la lasciavano vivere. Nonostante tutti gli sforzi, le lacrime caddero abbondantemente, accovacciandosi fin sotto il mento e non si sentì più in sè. Poteva stringersi forte a mani che la tenevano con affetto e farsi sussurarre nell’orecchio le più dolci parole ma la sua testa era altrove, persa in antiche melodie. E si sentì profondamente colpevole, bugiarda, inadeguata, nauseata. Tutto attorno era buio o forse luce accecante; persa dentro un buco infinito ed oscuro, cercava di risalire, aggrappandosi a ogni filo che le infondesse speranza, anche a un ramoscello più fragile di lei: si spezzò e lei cadde ancora più a fondo. Finchè non urlò, dentro, non si tirò per i capelli, perchè tutto era sbagliato.
Poteva vedere con chiarezza dentro i suoi buchi, che le foravano tutto il corpo, in punti che nemmeno immaginava di avere dentro sè. E ancora una volta fu assalita da quella orribile sensazione di dover fare qualcosa, di non potercela fare, di morire di nuovo e di dover rinascere e cambiarsi nuovamente per poter affrontare quella vita. Ma si chiese: “ E se questa volta non nascessi più?” Lo aveva già fatto, di abbandonarsi alla morte e fermare il tempo, continuando ad essere un corpo, pur non essendo niente, inutile, come un carillon rotto che non canta più la sua melodia. La avvolgeva il nulla e in silenzio lanciava disperatamente grida di aiuto. Aspettò. Aspettò.
Aspettò ancora. Forse arrivò qualcuno a soccorrerla ma lei non se ne accorse. Non ascoltava più, non si concedeva, non amava. Ormai era annegata in un mare troppo profondo, e dolcemente, con un sorriso, si lasciava trascinare sempre più giù, sempre più giù nella sua solitudine.
“Viviamo da soli, moriamo da soli, tutto il resto è soltanto un’illusione”.

New Haven, ottobre (da Lettere stagionali, Castel Maggiore, Book Ed., 1996) Alberto Bertoni

Cigni e gabbiani non sembrano decidersi
sui pochi pesci dello stagno presso il mare
Con virtù più agile
uno scoiattolo li guarda
si specchia, mordicchia, mi ricorda
che il tuo nome porta
lo stesso numero di sillabe del suo
ma che neanche svegliandomi alle cinque
sono stato capace di trovarti
Così ci provo, corteggio
la mia vicina di lettura
e tu, crudele, fai scattare la sirena
dell’allarme antincendio in biblioteca
Insomma, questo sole del Connecticut
prolungo alla tua notte
dico dormi, ti prego
coi miei mille baci nell’orecchio.

Provando a parlare in nome di Erri De Luca. Chiara Marsilli.

«“In nome del padre” inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita.»

E in nome di Erri si inaugura questa riflessione.

Erri De Luca è uno scrittore di sangue e sole, scrive ciò che pensa e pensa ciò che vive. Per questo le sue parole respirano l’umano. Non sono buttate a caso come troppo spesso succede, non sono parole gettate a mazzi confusi o per amore di una qualche estetica sonora, non si tratta di grossolane accozzaglie di espressioni ad effetto: trasmettono qualcosa perché sono qualcosa, hanno una profondità che è tanto intima quanto rigorosa e coerente. La colonna vertebrale di queste sue parole messe attentamente in fila è l’indagine filologica, una recherche non emotiva, ma al contrario mossa dalla consapevolezza asciutta e calda di chi sa che solo la verità ha la forza di emozionare. Un bisturi per scavare nelle parole e sotto di esse, per ricordarsi l’irricordabile e usarlo come nucleo pulsante di un libro che è già stato scritto, molto tempo fa.

Nasce libro, vive spettacolo: la consapevolezza di essere nati da corpo di donna, tutti, indistintamente, ma soprattutto gli uomini.

La potremmo definire una storia religiosa già nota, sentita ripetere più volte al catechismo e in chiesa, o conosciuta per patrimonio culturale condiviso, un mito di fede distante e astratto che si concretizza solo nelle folcloristiche statuine del presepe, quella di Maria e Giuseppe. Ma se si riporta tutto all’origine, se i personaggi si chiamano Miriam e Joseph, se l’angelo è il vento caldo e misterioso del marzo di Israele, se una ragazza madre partorisce da sola: la fabula è la stessa, la lectio è un’altra. Si tratta, letteralmente, di una ri-lettura narrata in scena, di un modo nuovo di osservare le cose sia per quanto riguarda la storia sia per la scelta di modificare il rapporto che intercorre tra testo e palcoscenico e tra palcoscenico a spettatore.

Ogni cosa cambia a patto di essere disposti a cambiare prospettiva, ed è proprio quello che fa Simone Gandolfo, seguito e sostenuto proprio da Erri De Luca, nel mettere in scena In nome della madre. Non una versione definitiva, non un’opera conclusa e ab-soluta, calata dall’alto dell’autorità registica su di un pubblico “paziente”, ma un tentativo di mettere in moto la coscienza del singolo spettatore, dimostrando che spesso la storia non è come ce la raccontano. Anche se la struttura del progetto è certamente figlia del metateatro, sarebbe riduttivo leggere questo spettacolo solo come una preziosa e inconsueta opportunità di gettare un’occhiata “dietro le quinte” alla scoperta della genesi di un’opera teatrale, perché nello sviluppo del limpido racconto il contenuto prende nettamente il sopravvento sulla forma. Il primo incontro con lo scrittore e la lettura della drammaturgia scolorano rapidamente nella prova in palcoscenico, fino alla solitudine di Sara Cianfriglia, ormai compiutamente Miriam.

La ricerca operata da Erri De Luca è semplice, e proprio per questo va detta, in scena come qui: per non cadere nella banalità del credere che si tratti di un ennesimo lavoro “ispirato a”. Lasciando da parte le interpretazioni canoniche incrostate di secoli di tradizione, lo sguardo si riscopre vergine e si muove in direzione della versione primigenia della storia, colmando con l’immaginazione solo le pagine lasciate bianche, senza contraddire in nulla la visione restituita dagli Apostoli. Ecco la scaturigine plurima di questa variante modernamente apocrifa ma strettamente legata ai quattro Vangeli canonici: l’originale ebraico, lo studio storico delle tradizioni, lo sguardo attento rivolto alla cartina geografica di una zona oggi tristemente nota ma ignorata.

E dunque una così stretta attinenza alle fonti storiche può mettere in bocca a Miriam una preghiera rovesciata, un violento implorare Dio che il figlio appena nato viva nella più assoluta anonimità, una difesa della sua normalità di essere umano prima di essere chiamato alla missione divina; e una carica di umanità palpitante prende corpo in Joseph, giovane uomo innamorato. Ma tutto questo non è bestemmia, non c’è traccia di blasfemia. La rivoluzione è dire la verità e trovare la religione nell’umano più corporeo, nel legame di sangue e amore che è quanto di più divino esista.

Oblivion. Celeste Zanzi.

Useremo soltanto parole

che ci apriranno al sublime

per poi affogare come bestie

nel mar di fango dell’abitudinaria

ambiguità.

Cammineremo soltanto su sentieri

non ancora tracciati e

scavalcheremo i cancelli delle

Promesse per arrivare alla

Nostra Casa Madre,

un oblio di sensazioni e musica.

Disegneremo paesaggi immensi

per sentirci un po’ più soli

per disgregarci e ricomporci

in un vortice di colori poco usati

che ci incolleranno insieme

senza farci mai toccare.

E sarà bellissimo,

e tu non sarai con me.

La promozione. Giovanni Galeano.

– Abbiamo bisogno di una segretaria.
– Ma che segretaria!
– Abbiamo bisogno di una segretaria.
– Ma che segretaria!! Siamo già in quattro, più tre dipendenti, più una alla portineria, caso qualcuno si perdesse fra uffici ed arrivasse da noi!
– Non si discute. La segretaria ci vuole. Fa serità. Pro-fes-sio-na-li-tà.
– Ok, capito. Fai venire il responsabile delle risorse umane.
– Eccomi Giovanni.
– Ciao Mary, avevi da fare?
– No no, eccoti i curriculum che mi hai chiesto. Nel pomeriggio abbiamo i primi colloqui.
– Speriamo che Valerio sia contento.
– Cazzo, ste tipe si fanno i dossier con foto da fighe eppoi dal vivo sono dei roiti.
– Richiama quelle di Bologna, di Bologna! Non le fuori sede! Nate e cresciute a Bologna, così risparmiamo sugli affitti.
– Si, ce ne sono un po’. Ma. Quelle fighe, come dici te, a meno di novecento euro non vengono. Catering, fiere, volantinaggio, come donne-immagine: quelle lavorano quando vogliono e col nostro stipendio ci fanno poco, anzi, per loro è quasi un impiccio.
– Cazzo. Cazzo! Prendine una carina, almeno, almeno in viso. Un bel sorriso; tanto deve stare seduta.

Gli dèi della città. Eleonora Renda.

Nel 1975, di fronte ad esiti di un lungo malgoverno che ha portato le città ad una crescita senza alcun progetto sensato, davanti a città caotiche che pongono agli occhi di un qualunque osservatore una molteplicità confusa di problemi e problematiche, Calvino si rende conto che non è la critica della negatività, a poter vincere. La vitalità e disgregazione che la metà degli anni settanta propone, nel bene o nel male, non potrà che essere il punto di partenza dal quale ricominciare, ed è inutile, aggiungo io, se non controproducente, fermarsi a demolire sterilmente, a fare scetticismo o, addirittura, ad alzare le spalle schifati, davanti a un presente che, volenti o nolenti, dovrà condurci verso un futuro al quale siamo obbligati, dunque, a pensare.

Come una specie può salvarsi, scrive, traendo da suoi caratteri quasi dimenticati e in apparenza reietti la spinta vitale per un riassestamento ed un salto in avanti che la salvi dall’estinzione, anche la città può recuperare quello che Calvino definisce “l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo tutta la sua storia”. È recuperando tale elemento che l’ha portata avanti e distinta dalle altre realtà cittadine, che essa potrà dunque salvarsi dal rischio di estinzione, fissando lo sguardo su quello che è sempre stato il suo programma, forse perso di vista.

Secondo un’antica abitudine, si rappresentava lo spirito di una città evocando quegli dèi che avevano assistito alla sua nascita: tali dèi sarebbero rimasti la profonda vocazione, la forza vitale stessa di quella città.

Dopo la crisi, così, ci dice Calvino, una città deve, al momento giusto, sapere re-individuare ed evocare i propri dèi e, solo così, salvarsi.

Non saprei quantificare il miglioramento che le nostre città possono oggi registrare rispetto al 1975. Cambiamenti positivi, certamente, evoluzioni. Ma quante cose si sono perse per strada, quanti diritti dimenticati, lati oscuri assimilati, quante rassegnate accettazioni, quante proteste cittadine ridotte in ceneri ormai appena tiepide, quante ingiustizie taciute, notizie celate, ambigui poteri?

E in questo panorama di cemento, disoccupazione e affari sottobanco, possiamo oggi cogliere il consiglio di Calvino e ritrovare il programma, il senso della nostra città per restituirle nuova energia vitale e dignità sociale? Quali gli dèi che la nostra storia può rivelarci e ai quali possiamo ancora, oggi, appellarci? Fidandoci delle fonti secolari, non credo si possa esitare nell’individuare, fra i grandi primati e vanti di Bologna, l’antichissima fondazione dell’Università nel 1088 data che, per quanto convenzionale, detiene il primato in tutto il mondo occidentale. Un’università antica che è passata, con successo, attraverso tutte le epoche della storia cittadina, ospitando grandi personalità, promuovendo studi in numerose discipline, accogliendo studenti provenienti da tutta Europa (come testimoniano gli stemmi che decorano tutti gli scaloni dell’Archiginnasio). Un’università sopravvissuta al governo papale quanto a quello comunale, alle lotte interne, quanto a quelle di politica ‘estera’. Un’università che ha costruito, nei secoli, la fama di Bologna in tutto il mondo, fama di cui ancora oggi la nostra città vive.

Ebbene sarà stata la sua grande fama che avrà spinto a organizzare proprio a Bologna, nel 1999 il cosiddetto Bologna Process, incontro internazionale per la riforma delle università europee. Questo, affiancato da precise e mirate politiche nazionali, ha avviato la trasformazione delle università in aziende, controllate da complesse gerarchie di potere, che promuovono una svendita dei saperi producendo, sotto la guida del più avanzato capitalismo, studenti istruiti a suon di crediti formativi in una macedonia di esami da superare il più in fretta possibile per accedere, dopo una laurea triennale, ad ulteriori percorsi di laurea e gettarsi, poi, nel mondo dell’inesistente lavoro.

Ma il Bologna Process ha fallito: non solo non ha realizzato gli obiettivi prefissati per il miglioramento della mobilità di studenti e docenti, ma ha anche incrementato la selezione sociale nell’accesso agli studi univeristari. Il Bologna Process e i nostri governi hanno voluto modificare le fondamenta stesse del percorso universitario, trasformandolo, nel suo complesso, in un processo produttivo più che formativo, sottomesso alle leggi di mercato, sempre più elitario, soprattutto nei suoi gradini più alti, e sempre più inaccessibile economicamente.

È questo, dunque, il punto di arrivo del vanto che Bologna è riuscita a costruirsi e conservare attraverso i secoli della sua storia?

L’università che si è mantenuta grazie a studenti provenienti da tutto il mondo ed è cresciuta grazie a innovative produzioni di sapere è oggi una delle prime ad appoggiare la morte dei saperi critici e l’esclusione degli studenti da quelli che dovrebbero essere i loro stessi processi formativi?

La forza dell’Università, il suo stesso senso costituente, non sta nell’istituzione che la governa, ma nella voce di tutte le singole parti che la compongono. E se fra gli dèi della nostra città c’è l’università, fra gli dèi della nostra città ci sono tutti gli studenti, i ricercatori e i docenti che in essa lavorano o, almeno, tentano di farlo. Forse, dunque, cogliere l’invito di Calvino ed evocare gli dèi della città in nostro aiuto non sarà troppo difficile: i nostri dèi si incontrano tutti i giorni lungo le strade della città. I nostri dèi siamo noi, e da noi Bologna deve ripartire.

Donna. Nino Mandrici

Nino Mandrici

Nino Mandrici, Maternità

Donna
fiore cresciuto tra le pietre
regina dell’alba
sorgente di acqua madre
corpo del mondo che verrà
in te rinasco ogni giorno
del tuo viso è fatto il mio cielo
da te ho bevuto la mia forza
a te affido le mie debolezze
come si percuote un fiore
come si ferma il mare
come si imprigiona il cielo
e la luna le stelle la vita
come si può odiare il sangue
che ci scorre nelle vene
come si può odiare te
donna
sentiero delle mie tenerezze.